Tuesday, December 23, 2008

DONNE MUTILATE, GUERRA ALL'ORRORE


Il Corriere della Sera - 23 dicembre 2008


di Cecilia Zecchinelli


Il Cairo - Nel villaggio di Sindibis, un'ora dal Cairo tra campi e palme lungo il Nilo, è festa grande: bambini, giovani, anziani, vescovi copti e imam musulmani, tutti con grandi sorrisi e gli abiti migliori. Sotto l'enorme tendone pieno di luci, decorato da insoliti disegni di coltelli e scritte color del sangue, Moushira Khattab grida al microfono: «Le vostre bambine d'ora in poi saranno belle e felici come la luna». E poi: «Da oggi - proclama la leader del Consiglio nazionale per l'infanzia e la maternità (Nccm) - a Sindibis le mutilazioni genitali femminili, le mgf, sono proibite per sempre». È la fine di un'era durata millenni per il villaggio che come altri in tutto l'Egitto - musulmani, cristiani o misti - ha scelto di essere «libero dalle mgf». Ancora poco se si pensa che il 96% delle egiziane tra i 15 e i 49 anni (stime Onu) sono mutilate, che fino ai 15 anni il tasso è ritenuto sul 60%. Come minimo private di parte o dell'intero clitoride, a volte con gli organi genitali esterni tagliati. Molte ne soffrono tutta la vita, alcune muoiono di parto o subito: come Bodour, 13 anni, uccisa nel 2007 da una «circoncisione», ormai diventata un simbolo. Ma per tutte la piaga è marchio indelebile della condizione inferiore della donna, privata della sessualità per non mettere a rischio, prima e dopo il matrimonio, l'onore della famiglia (ovvero dei maschi). «Sono felice per le mie bimbe - ci dice Fawziya - ma questa festa ricorda che per me è troppo tardi, oggi riprovo l'orrore di allora». In Egitto, come in altri 17 Paesi tra i 28 dell'Africa dove la pratica è diffusa (con tassi che vanno dal 28% del Senegal a oltre il 90% di Mali, Guinea e Sudan), da giugno esiste una legge che la proibisce. Altre nazioni (Kenya, Uganda, Mali) stanno per metterla al bando. Un successo, certo: vietare una tradizione che risale ai Faraoni, difesa per secoli dalle comunità e dai leader politici e religiosi di ogni credo (non a caso tutti uomini), è una svolta storica. Già avere rotto il tabù per parlarne sui media è un gran risultato. Perché la vera guerra alle mgf, pur preceduta da qualche coraggiosa battaglia locale, in fondo è iniziata appena nel 2003, alla Conferenza del Cairo voluta da Emma Bonino con la sua Ong Non c'è pace senza giustizia (Npsg) e dal Nccm guidata dalla Khattab (che ammette di aver «scoperto solo allora, scioccata, la vastità del fenomeno» nel suo Paese). Con il forte sostegno della first lady Suzanne Mubarak, del grande imam di Al-Azhar, sheikh Tantawi, e del patriarca copto Shenouda III. Oltre a quello, fondamentale, di decine e decine di first lady, ministre, parlamentari e attiviste africane (ma anche europee), che pochi giorni fa si sono ritrovate al Cairo per fare il punto e rilanciare la lotta. Dalla seconda, grande Conferenza chiamata «Cairo+5», è emerso un verdetto comune: i primi risultati ci sono, la strada imboccata è giusta, ma la battaglia deve continuare. Perché mancano dati ma si stima che ogni anno vengano ancora private della loro sessualità tra i due e i tre milioni di donne e bambine, che si aggiungono al triste ed enorme esercito mondiale di mutilate: 120-130 milioni. «E perché - ci spiega Emma Bonino, che ha aperto la Conferenza con un sentito messaggio di Clio Napolitano - sono emerse novità. Le mgf hanno infatti iniziato a calare in certi Paesi ma questo ha portato alla migrazione mutilatoria: le famiglie portano le figlie in Stati vicini dove la pratica è permessa, ad esempio dal Burkina al Mali. Abbiamo poi notizie, per la prima volta, di mgf in Paesi finora ritenuti privi, come Arabia Saudita o Iraq, per non parlare dell'Occidente dove gli immigrati hanno esportato le mutilazioni. Che sono diventate un problema globale e richiedono quindi un'azione globale». Soprattutto, ha decretato la «Cairo+5» che si è riconvocata tra un anno in un Paese dell'Africa occidentale, passaggio dal nazionale al transnazionale, con l'armonizzazione delle legislazioni; creazione di osservatori per il monitoraggio; campagne d'informazione più massicce e vera applicazione delle leggi. Anche nei Paesi finora ritenuti privi di mgf. «Nel Kurdistan iracheno siamo rimasti sconvolti nel sapere che in alcuni villaggi il 60% delle donne sono mutilate», conferma Rozhan Dizayee, avvocato e membro del Parlamento di Erbil, unica donna della Commissione Giustizia. «Abbiamo scoperto che è una pratica antica, fatta in segreto fuori dalle città, che oggi si sta diffondendo con il crescere dell'estremismo islamico, anche se islamica non è. Mi sto battendo per una legge, non è facile». Come Rozhan, unica rappresentante del Medio Oriente alla conferenza africana-europea, tante altre donne hanno testimoniato la loro battaglia: dalla ministra del Kenya Linah Kilimo («i colleghi mi chiamano Mgf, ma prima era con scherno, oggi con rispetto»), all'attivista senegalese Khadi Koita (autrice del libro Mutilata, Cairo Editore, paladina anti-mgf in Europa). «Come per quella mamma alla festa del villaggio - ci dice Nahid Gabrella, attivista e consulente sudanese - per noi donne africane questa lotta è un dolore, continua a ricordarci quello che abbiamo subito. Ma anche per questo eliminare per sempre le mutilazioni è la cosa più importante che possiamo fare».



"IN ITALIA 30MILA CASI MA DAL DIVIETO DEL 2006 NEANCHE UN PROCESSO"


di Cecilia Zecchinelli


Il Cairo - «Si dice che siano almeno 30 mila in Italia le donne e le bambine mutilate nelle varie comunità di immigrati. Ma chissà quante sono davvero? E dove? Sono anni che mi batto per avere un osservatorio nazionale, che manca ovunque per altro. Solo così sapremo come agire, in quali lingue e con quali strumenti fare prevenzione e dissuasione. Per ora, almeno, abbiamo la legge». Emma Bonino, vicepresidente del Senato, radicale e da tempo in guerra contro le mutilazioni genitali femminili (mgf), si consola pensando che «per il divorzio la lotta è durata 14 anni». Per bandire le mgf - la normativa è stata approvata nel gennaio 2006 - c'è voluto in fondo meno. Ma è applicata? Genitori, medici, o chiunque effettui l'«operazione» (spesso in condizioni igieniche pessime, senza anestesia) sono perseguiti? In realtà, da quando la legge è passata non c'è stato un solo processo (due furono celebrati prima del 2006) e nemmeno una denuncia. «Fatta la legge, e un pò di pubblicità con poster per le strade, poi c'è stato un totale silenzio», denuncia Marian Ismail, somala e presidente dell`Associazione Donne in Rete di Milano. «Ci sono i fondi e non si capisce come vengano gestiti. E stato organizzato un tavolo tecnico dal governo e i risultati del lavoro sono rimasti in un cassetto. E intanto quasi nessun immigrato sa che le mutilazioni da noi sono proibite, chi lo sa vede che la legge non è applicata: così continua a portare le figlie "in vacanza" in patria per farle mutilare, o trova chi lo fa in Italia. Duemila bambine a rischio ogni anno si dice, ma di certo non sappiamo niente». Anche per Ismail è quindi vitale la creazione di un data base che raccolga informazioni di medici, ospedali, operatori, che pur rispettando la privacy permetta di capire dove e come concentrare gli sforzi. Responsabilizzando le ambasciate dei Paesi interessati (molti immigrati ignorano che a casa loro le mgf sono ora proibite). Coinvolgendo le seconde generazioni, ponte tra comunità e società italiana. Allargando l'azione con il numero verde promesso dalla legge e mai attivato, su cui è pronto a collaborare il Telefono Azzurro (chiamato al Cairo come consulente per la sua linea anti-mgf). In sintesi: superando l'attuale fase in cui il poco che si fa è solo grazie ai volontari e ai singoli: «Come i medici che accolgono i barconi di clandestini a Lampedusa - dice Ismail -. Molte di quelle donne per partorire devono essere deinfibulate». Qualche importante segnale positivo però si coglie in Italia: ad esempio, lo sforzo finanziario e non solo della nostra Cooperazione. «Siamo impegnati in vari progetti per il mondo - spiega Elisabetta Belloni, direttore Generale della Cooperazione italiana, presente alla Conferenza del Cairo -. L'azione va articolata su tre settori: sul territorio per far prevenzione e assistenza; sui media per promuovere leggi che riconoscano le mgf come crimine, omogenee a livello internazionale; con una più ampia battaglia per i diritti umani, ambito in cui l'Italia ha una forte tradizione di impegno». E anche in Parlamento la questione non è in fondo ignorata: Giulia Buongiorno, avvocato e presidente della Commissione Giustizia della Camera presente anche lei alla Conferenza egiziana, sostiene che «le mgf nascono dalla discriminazione della donna, esattamente come tanta violenza sommersa in Italia». E che «respingendo la posizione di chi dice "non sono un problema nostro", penso invece che vadano combattute con più decisione: nel mio recente progetto di legge contro la pedofilia, chi viene a sapere del reato ha il dovere giuridico di denunciare, altrimenti è perseguibile come complice. Lo stesso deve essere per le mutilazioni». Proposta che però non trova tutti d'accordo. «Un'altra legge? Non ci serve - commenta Emma Bonino -. L'importante è applicare davvero quella esistente. Lanciare finalmente una vera campagna. Fatti e non parole».

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